Numerose ed antichissime abbazie per diversi secoli ricche e fiorenti, non hanno lasciato altra traccia che vuote costruzioni, il più spesso in rovina, quando non addirittura pochi muri anneriti e sbriciolati sepolti da una fitta vegetazione selvatica. Di alcune di esse nel Lazio non sono rimaste che poche notizie desumibili da antiche carte, per cui, ad esempio, S. Saturnino, S. Giuliano, S. Donato, S. Arcangelo al Monte, S. Maria de Margarita, S. Savino non sono altro che nomi emergenti dalla notte dei secoli ai quali non si può collegare alcuna immagine.

Il fatto è che nel Lazio le abbazie erano numerosissime, particolarmente nell'alto Medioevo, vuoi per la grande ondata di misticismo e religiosità scatenata dalla proclamazione delle Crociate, vuoi per la vicinanza della sede papale e per le innumerevoli riforme che moltiplicarono l'originale tronco benedettino.

Nel XV secolo, poi, l'istituzione della "commenda" e del cardinale commendatario, le rese poste ambite nel giuoco dei potentati di Santa Romania Ecclesia. Da quel momento in poi si accende una lotta, durata quattro secoli, per aggiudicarsi le più ricche ed importanti per fama, per ricchezza e per posizione strategica e per sottoporre alla giurisdizione delle maggiori quelle, fra le minori, aventi più rendite e territori.

La facoltà della giurisdizione faceva sì che certe abbazie dipendessero da una commenda lontana decine e decine di chilometri, e se oggi certe distanze sono divenute irrisorie, è facile capire, invece, quanto questo in?uisse sulle loro necessità e sulla loro sicurezza se consideriamo lo stato dei collegamenti in quei secoli passati, sulla loro lentezza e precarietà, alle quali occorre aggiungere 1'isolamento e l'impraticabilità dei luoghi ove esse erano state edificate.

A questi elementi occorre aggiungere le pestilenze, le invasioni di eserciti stranieri ed i conseguenti saccheggi, le imprese banditesche e le continue lotte fra i signorotti nel cui campo d'azione le nostre protagoniste venivano fatalmente a trovarsi.

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Orbene, proprio alla ricerca di qualcuna di queste antiche abbazie che da tempo non sono più tali e che pur meritano di essere ricreate ho voluto avventurarmi per le vie del Lazio nell'intento di aggiungere qualcosa al quadro che di tali monumenti della fede e dell'arte offre il presente Lunario: un pellegrinaggio che doveva avere inizio con S. Andrea in Flumine (Ponzano Romano) e con S. Salvatore Maggiore (Rocca Sinibalda). Ma altri hanno trattato in questo stesso volume di esse, per cui prenderò l'avvio con un"a1tra antichissima abbazia che in territorio di Palombara Sabina, rievoca suggestivi tempi lontani(1).

S. Giovanni in Argentella - per la quale si veda lo studio di R. Enking (1974) si trova poco fuori del centro abitato, edificata - probabilmente - sulle fondamenta di una costruzione romana (si presume un luogo di culto) che comunicava con la sorgente nel fondo di lungovalle. L'acqua scorre in un antico sarcofago e si ipotizza che proprio dal suo argento luccichio sia derivato, attraverso successive trasformazioni, la caratteristica denominazione dell'abbazia.

Sull'ingresso odierno della chiesa che era una volta il secondo convento costruito in ordine di tempo, la lunetta reca il simbolo dell'ordine benedettino: una croce a bracci uguali con quattro dischi posti negli spazi determinati dai bracci, sui quali si leggono le lettere "C(rux) S(ancti)

P(atris) B(enedicti)". Qualcuno ha voluto interpretare questo simbolo come una croce greca, con tutte le deduzioni ed implicazioni che essa comporta, ma questa tesi è stata autorevolmente respinta dello stesso archimandrita dell'abbazia di Grottaferrata.

L'edificio è formato da una costruzione che praticamente ne comprende altre due dentro di sé: un oratorio originale le cui prime notizie risalgono alla seconda metà del primo millennio (sepolto da un secondo di epoca posteriore ed inglobato in un terzo di epoca romanica).

Dalle relazioni seguite alle ispezioni effettuate durante gli ultimi restauri, risulta che esso aveva una superficie di circa otto metri per quattro. Nell'angolo di destra conserva una struttura rettangolare che probabilmente sosteneva un campanile. È stato anche rinvenuto un ossario ampio e profondo risalente alle seconda chiesa che servì a dare nuova sepoltura alle ossa dei primi monaci.

Ciò che rimane della seconda fase di costruzione, cioè la cripta mezzo interrata, il piccolissimo presbiterio, l'altare maggiore ed il ciborio, possiamo farlo risalire tra l'ottavo ed il nono secolo al tempo del Ducato di Spoleto al quale il territorio apparteneva, tenendo anche presente la grande venerazione che i Longobardi nutrivano per S. Giovanni Battista. L'edificio romanico, l'ultimo, misura ventidue metri per quindici, circa, ed utilizza diversi materiali di spoglio: colonne e gradini di marmo giallo, capitelli di epoca severiana.

Il primo abate conosciuto è Martinus come risulta da un documento di vendita del 998 che lo conferma "abbas ordo benedicti" nel vocabolo di S. Giovanni in Argentella ed in quello di S. Ciriaca in "terminis Diocletianis".

Nel 1284, Jacopo Savelli, cardinale di S. Maria in Cosmedin, signore di Palombara, affidò la nostra abbazia - per incarico del vescovo di Sabina - ai monaci guglielmiti di cui era il protettore, affidamento che confermò - divenuto papa con il nome di Onorio IV - con una bolla emessa nel secondo anno del suo ponti?cato, il 1286.

L'ordine dei guglielmiti, o eremiti guglielmini, scomparsi dall'Italia nel XVII secolo e sopravvissuti solo per altri due secoli, principalmente in Francia e nei Paesi Bassi, era nato dopo la morte del santo dal quale prese il nome. Questi era un cavaliere francese, nobile di Poitou, scomunicato da papa Eugenio IV per un crimine sconosciuto ma di straordinaria gravità, solo più tardi assolto a Roma dopo lunghe preghiere di espiazione.

Per penitenza fece un viaggio in Terra Santa e visse per qualche tempo a Gerusalemme come anacoreta. Sempre per penitenza fece un pellegrinaggio al santuario di S. Jago (Giacomo) di Campostella, poi un altro a Gerusalemme.

Ritornato in Italia si ritirò con alcuni seguaci conducendo vita eremitica dosata con estrema severità prima a Lupoclavio vicino Pisa poi, da solo, sul monte Bruno poiché i suoi compagni non resistevano al suo severo regime. Per lo stesso motivo abbandonò anche questo eremo e si ritirò con il solo "famulo" Alberto in una orrida e squallida valletta del Grossetano chiamata "Malavalle", ove morì il 10 febbraio 1157.

La fama della sua santità attirò sulla sua tomba gran numero di proseliti, tra i primi Rainaldo e Teobaldo il quale, più tardi, scrisse una biografia di Guglielmo andata, purtroppo, perduta.

Alberto fissò la prima "Regula Sancti Guillelmi" nel 1202 e l'approvazione di Innocenzo III nel 1211 equivalse all'autorizzazione del culto che fu fissato nel giorno 10 febbraio.

Innocenzo IV con bolla 2 settembre 1248 sancisce definitivamente l'ordine appellandolo "Ordo monasticus secundum Deum et b. Benedicti regulam atque institutionem fratrum Ordinis s. Guilielmi" confermando cosi la bolla di Gregorio IX del 1238 che imponeva ai guglielmiti la regola di S. Benedetto, in ossequio ai dettami del IV Concilio laterano sulla "nimia religionum diversitas".

È palese, quindi, che all'epoca dell'occupazione della nostra abbazia l'ordine fosse fiorentissimo, ancora in fase di espansione: sarebbe arrivato - nel secolo XIV - a più di sessanta monasteri suddivisi nelle tre provincie: l'italiana, la francese e la germanica.

Per S. Giovanni il loro arrivo fu una fortuna e durò più di cento anni. Fu rinnovata la chiesa ed arricchita con la cappella del santo ottenuta costruendo un vano esterno appoggiato alla navata destra e aprendo un varco sul muro perimetrale; vi furono affrescati episodi storici riguardanti il santo eremita.

Nel 1300 fu dotata anche di una campana ma, purtroppo, già nel 1373 Gregorio XI da Avignone, ne lamentava la decadenza.

L'ordine, tuttavia, conservò la nostra protagonista sino al 1445 quando l'ultimo priore Ioannis dc Banco rinunciò spontaneamente alla propria carica, di sua libera volontà "ex certis causis rationalibus" come si legge nella bolla dello stesso anno di Eugenio IV. Da quella data i guglielmiti sparivano dall'Italia.

Iniziò allora la serie degli abati commendatari. Per circa centocinquant'anni furono tutti Savelli. Nel 1598 il cardinale Inicus de Aragona, vescovo di Porto, che la ridusse quasi in rovina per la sua pessima amministrazione, provocò l'arrivo di una visita canonica.

Nel 1637, con il consenso di papa Urbano VIII, i Savelli vendettero Palombara a Marcantonio Borghese. Nel documento figura anche la nostra chiesa che viene chiamata con il suo titolo di "Abbazia di S. Giovanni in Argentella".

Durante il pontificato di Pio VI la commenda, che era stata sempre a vita, passò alla "Sacra Penitenziaria" con la clausola che non eccedesse i quindici anni. Fu concessa, fra gli altri, anche al cardinale Antonelli, il futuro potente Ministro di Gregorio XVI e Pio IX, quando era penitenziere maggiore nel 1809.

La Rivoluzione francese e la dominazione napoleonica in Italia, che scatenarono reazioni imprevedibili persino nella popolazione di Palombara, con le loro implicazioni sociali segnarono l'inizio della quasi totale distruzione della nostra abbazia.

Nel 1810, con la legge sulla abolizione dei privilegi feudali, venne il colpo di grazia.

La vendita di Palombara ai Torlonia, nel 1887, non cambiò le cose tanto che, quando nel 1900 il nostro piccolo S. Giovanni fu dichiarato monumento nazionale, molti pensarono che, ormai, non ne valesse più la pena tale era il suo stato di abbandono e di rovina.

Oggi, dopo gli ultimi restauri, la chiesetta è tornata a rivivere. Vi viene officiata la messa festiva, e vengono a visitarla numerosi estimatori.

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Lasciato il territorio della provincia romana, si raggiunge quella zona dell'alto viterbese, che a seguito della nuova ripartizione regionale effettuata dallo Stato italiano viene chiamato Etruria meridionale o più comunemente con l'antico nome di Tuscia, oppure ancora con quello di Maremma laziale.

Cinque chilometri dopo Montalto di Castro, l'antica leggendaria Montauto dei briganti di ottocentesca memoria, una strada si diparte dalla consolare Aurelia e si inoltra verso est, ne1l'ampio territorio che sin dai primi decenni del VI secolo avanti Cristo fu dominio incontrastato di Vulci e di Chiusi, proseguendo, sempre sulla destra, sino a Valentano passando per Canino.

Nella piana apparente, dove il fiume Fiora scorre invisibile nel suo profondo letto roccioso, poco oltre il bivio per Musignano si staglia sulla cima di una tonda gobba del terreno la massa scura e massiccia di quella che ancora oggi viene chiamata: la Abbazia al Ponte.

Mano a mano che ci si avvicina il suo aspetto si rivela sempre più imponente e suggestivo. Le solide muraglie di conci di tranchite, circondate dal1'ampio fossato di recente ripristinato, che oppongono alla pianura un fronte poligonale convesso con un tozzo bastione al centro di ogni lato, compongono uno schema difensivo eccezionale che riporta ai nostri occhi visioni di battaglie cruente nella distesa formicolante di armati, tra un garrire di vessilli, un lampeggiare di spade e di corazze, un clangore di assalti.

È sufficiente, però, terminare il perimetro del complesso e arrivare alla facciata posteriore - che si affaccia squadrata, inserita tra due piccole torri angolari, a strapiombo sul Fiora, che le scorre sotto incassato tra due profonde pareti, irte di massi, affollate di pioppi, salici e lecci emergenti da una folta vegetazione selvatica -, per piombare nella mistica ed austera atmosfera che vi regnava negli ultimi due secoli del primo millennio quando il salmodiare dei monaci che la occupavano in ascetica solitudine ne faceva l"abbazia di S. Mamiliano in diocesi di Castro.

Il contrasto tra i due diversi aspetti dell'edi?cio è enorme e viene maggiormente acuito alla vista dello splendido ponte che arditamente collega le due rive a picco, partendo da un mastodontico maschio appoggiato subito dietro la torre angolare di destra. È un manufatto romano della prima metà del I secolo, restaurato agli inizi del III ma che utilizza chiaramente elementi di costruzione etrusca particolarmente nell'imposta dei massicci piloni di sostegno in tu? squadrati di peperino rinforzati da file aggettanti di blocchi di travertino.

L'aspetto attuale è quello derivato dai rifacimenti medioevali ma le due arcate laterali, assai disuguali fra loro, sono ancora le originali, realizzate dissimili perché dissimili erano i livelli su cui vennero fondate. Il grande arco centrale, alto sicuramente non meno di trenta metri, che crea le accentuate pendenze cosiddette a schiena d'asino, è il risultato della sistemazione subita nell'età di mezzo.

Delle due spallette, quella che sporge a valle è solamente di poco più alta della norma mentre su quella che guarda a monte era appoggiato il muro di sostegno di un antichissimo acquedotto ora diruto, le cui acque, sgocciolando per secoli, hanno formato una singolare decorazione calcarea a guisa di frangia.

I racconti che parlano della nostra protagonista come già esistente prima del IX secolo, quando cioè venne distrutta dai saraceni che dispersero così la prima comunità benedettina, e che la dicono poi ricostruita dai templari, ai quali sarebbero succeduti i cistercensi, pur tramandando episodi credibili per la vita di quei tempi, non trovano suffragio né riscontro in alcun documento. La prima data sicura cui possiamo fare riferimento è quella della bolla rilasciata nel 1140 da Innocenzo II nella quale egli riconferma i beni già attribuitile da Gregorio VII nell'anno 1074, espressione degli intendimenti di quel Papa, espressi nel primo sinodo da lui convocato appunto in quell'anno.

Questi possedimenti erano vastissimi e si estendevano per l'intero quadrilatero dai fiumi Flora, Paglia Tevere e la costa sul mare Tirreno.

Tutta questa ricchezza non impedì che nel 1178 tutta l'abbazia con le sue pertinenze, fosse confermata a quella di S. Giusto vicino a Tuscania, della quale ci parlerà più avanti una bolla di Alessandro III.

Come era prevedibile, e per le ragioni già prima spiegate, questo provvedimento segnò il principio della fine di S. Mamiliano: verso la fine del tredicesimo secolo essa era del tutto deserta ed abbandonata; allora, poiché aveva sempre dipeso direttamente dalla S. Sede, Nicolò III nel 1277 ne riaffermò la soggezione completa: una costruzione simile in mano a qualche potente di parte avversa avrebbe costituito una più che seria preoccupazione!

Difatti seguirono secoli di aspre contese: fu occupata dai cornetani ai quali la tolse Giovanni di Vico, la riprese il condottiero Rougher che militava per la Chiesa, fu ripresa dal Prefetto a cui la tolsero, nel 1354, le milizie del cardinale Albornoz.

E non era finita lì. Romani, senesi, milizie pontificie, persino i brettoni transitarono per quella che era stata la splendida "Badia al Ponte". Fu oggetto di pattuizioni fra "il magnifico signore Jantedesco" ed il Vaticano, ?nché, nel 1402 Bonifacio IX la infeudò a Bertoldo Orsini conte di Pitigliano.

Nel 1421 fu riconosciuta feudo di Angelo Lavello Tartaglia, il quale l'aveva occupata militarmente nel 1419, ma, poiché costui morì l'anno medesimo, poté essere riincamerata.

Attraverso varie vicende pervenne dopo circa un secolo ai Farnese, ma non interamente, in quanto un quarto di essa seguitò a rimanere ai Doganieri del Patrimonio (appaltatori delle dogane, dei beni demaniali, ecc.).

Nel 1522, Leone X concesse anche questo quarto mancante e quello che era divenuto ormai un formidabile castello, anche se seguitava ad essere chiamato con il suo vecchio nome, venne incluso nel 1537 nel Ducato di Castro e ne seguì la sorte quando, nel 1649, quest'ultimo venne incamerato.

Dopo di allora, il castello divenne posto di Dogana Pontificia senza ulteriori trasformazioni. Passato in proprietà dei Bonaparte, u venduto nel 1859 ai Torlonia.

Da allora la costruzione cadde in abbandono. Il tempo e la vegetazione selvatica provocarono crolli e rovine. Il fossato di difesa andò continuamente interrandosi sino a diventare un abbeveratoio per gli animali che avevano ricovero nei pochi superstiti locali terreni.

Oggi, l'antica Badia al Ponte, che persino sulle carte geografiche ha mantenuto la sua denominazione, è stata saggiamente trasformata in museo.

I restauri effettuati dalla Sovraintendenza alle Antichità dell'Etruria Meridionale, divenutane proprietaria dopo l'acquisto dai Torlonia, hanno restituito al complesso un aspetto molto aderente all'originale.

Sono molto evidenti, oggi, le differenze tra il nucleo originario, cioè la facciata posteriore sospesa su Flora, l'antico ponte e la parte fortificata.

Sono state abolite le numerose modifiche venutesi a creare nel corso dei secoli per soddisfare le esigenze di ogni nuovo proprietario ma è rimasta intatta, per esempio, quella del Farnese che fece costruire un ambiente fra l'atrio e la corte.

Oggi, che nelle sue sale si offrono all'estimazione dei visitatori le meraviglie che con abbondanza il generoso sottosuolo vulcente non cessa di donare, per il nostro castello è iniziata una nuova vita, la vera vita per un edi?cio come questo che insieme all'utilizzazione merita le cure e l'ammirazione degne della sua bellezza.

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Poco fuori di Tuscania, a sinistra della strada che proviene da Roma, c'è la via dell'Olivo che - come fa intuire il suo nome - conduce alla cappella della Madonna dell'Olivo.

L'asfalto termina circa un chilometro oltre, poi la strada prosegue in terra battuta per altri tre chilometri e, finalmente, un grosso cancello, perennemente chiuso, sbarra l'accesso di una grossa carrareccia dalla pendenza piuttosto rimarcata.

Giù in fondo, ad una distanza circa di duecento metri giacciono isolati, sconosciuti ai più e molto, ma molto mal ridotti, i resti della ricca e famosa abbazia di S. Giusto.

In mano a privati, si suppone fin dai tempi della Giunta Liquidatrice dell'Asse Ecclesiastico, essa è addirittura considerata perduta da più di uno studioso e, certamente, visto il suo stato attuale, la cosa non può certo dirsi scongiurata.

Centro monastico di notevole importanza già menzionata nel Regesto di Farfa del 962, (quindi anteriore a tale data), al tempo dell'abate Campone, quale possedimento della stessa, la sua fondazione è probabilmente legata alla riforma cluniacense.

Per il titolo si possono fare solo delle ipotesi. Più che del piccolo martire spagnolo S. Giusto, fratello di S. Pastore, uccisi entrambi a Complutum sotto l'imperatore Diocleziano durante una persecuzione contro i cristiani, sembra più logico pensare - poiché la comunità "in primis" apparteneva all'ordine di S. Benedetto - al S. Giusto, prete romano, monaco benedettino del monastero del Celio, che fece parte con Mellito, Paolino e Ru?niano della seconda missione inviata nello anno 601 in Inghilterra per collaborare con S. Agostino che ivi si trovava a predicare sin dal 579, e che fu sepolto a Canterbury il 10 novembre del 630.

Nell'anno 1146, con bolla di Eugenio III passò all'ordine cistercense sotto l'abbazia parmense di Fontevivo. Il 5 gennaio del 1217 con bolla di Onorio III fu aggregata all'abbazia di Casamari nel Lazio.

Nel 1255 Alessandro IV con bolla del 21 agosto la diede "cum graviter esset in spiritualibus et temporalibus collapsa" all'abbazia romana dei santi Vincenzo ed Anastasio alle Tre Fontane, riportandola così nel grembo di S. Benedetto.

Forse questa decisione fu provocata dalle grandi ricchezze della nostra abbazia, poiché, come si ricorderà, nel 1178 le furono confermati, con bolla papale, tutti i beni posseduti e cioé: il castello di S. Giusto, dove esse cra allogata, la chiesa di S. Nicola a Corneto, la chiesa di S. Andrea a Centocelle (fraz. di Civitavecchia) la chiesa di S. Firmina sempre a Civitavecchia, la chiesa di S. Maria a S. Lorenzo, cui venivano aggiunti la chiesa di S. Maria a Rispampani e "la chiesa di S. Mamiliano al Ponte in diocesi di Castro con tutti i suoi possedimenti"!!.

Malgrado tutto, essa godé sempre di un`altra considerazione. Nel 1208, per esempio, il suo abate figura convocato a Montefiascone al parlamento colà tenuto da quel rettore, Rinaldo Malvolti.

A nulla però servirono né la considerazione, ne le grandi sostanze in suo possesso; nel 1460 l'abbazia di S. Giusto presso Tuscania era andata completamente in rovina, i monaci da tempo spariti, il monastero abbandonato ai ladri ed alle piante selvatiche. In quell'anno Pio II, ridottala al rango di tenuta, la trasferì in proprietà ai vescovi di Viterbo e di Tuscania.

Oggi l'intero complesso si presenta diruto e senza coperture salvo, parzialmente, la chiesa; brandelli di murature merlate sopravvivono in cima a qualche tratto di parete nell'edificio del convento.

La torre campanaria, di struttura poderosa ma in parte crollata, è divisa in cornici orizzontali che marcano i piani e che sono sostenute da archetti ciechi. In ognuno di essi si dovevano aprire coppie di strette finestrelle ad arco, come dimostra il primo ed unico rimasto.

Il portale della chiesa è abbastanza bene conservato anche se sono scomparse le colonnine inserite nei due angoli della leggera strombatura: a destra sono rimaste le due piccole basi circolari, e dei quattro piccoli capitelli ne sono rimasti solo tre alquanto rovinati.

L'arco è decorato a motivi geometrici che richiamano le onde dei blasoni, mentre sull'architrave è scolpita una scritta gotica molto deteriorata nella quale si può leggere "Ranierius... lev... monacorum... ier... iussit temporibus domini Alberici... Umili... bbs". Sembra di capire che questo Ranierus abbia avuto una certa parte nella elevazione della chiesa e quindi anche del convento al tempo di Alberico e dell'abate Umile.

Se l'Alberico in questione fosse - come sembra logico pensare - il "Principe di Roma' ', la scritta sarebbe una riprova della antichità della costruzione dell'edificio. Infatti Alberico è morto nel 954 e quindi S. Giusto sarebbe sicuramente anteriore a quella data.

In origine il piccolo tempio aveva tre navate, tante quante erano le absidi, che erano quadrate. Più grande la centrale e più piccole le laterali, con tre nicchie ciascuna, ognuna delle quali inserita in una centina quadrata larga una cinquantina di centimetri che incornicia tutta la parete.

La navata residua è quella centrale. Quella di sinistra è crollata completamente ed il muro è stato tamponato a poca distanza dal gradino di accesso alla relativa abside, mentre a destra sono crollate sia la navata che l'abside della quale è ancora ben visibile all'esterno l'imposta dell'arco.

È rimasto il pavimento della sola abside trasformato in piattaforma alla quale sono state attaccate dalle scale per scendere sul retro dell'edi?cio.

La parte più interessante, però, è la cripta sotterranea costituita da tre celle sistemate a trifoglio con le volte a crociera. L'ingresso si trova all'esterno ai piedi delle scale di cui si è detto prima, un corridoio con volta a botte occupa tutta la larghezza della chiesa che potrebbe essere stata costruita posteriormente. Sulla destra quattro semi archi che partono dall'inizio della volta creano le tre aperture. Il primo e l'ultimo di questi semi archi scendono lungo il muro fino al pavimento a spigolo vivo; il secondo ed il terzo, a due terzi circa della loro lunghezza poggiano: uno su di una colonna di marmo liscia con capitello romanico quasi del tutto consumato, informe, l'altro su di una colonna di marmo giallino scanalata con un capitello che una volta era forse corinzio, anch'esso estremamente consunto.

Il corridoio, gli archi e le cappelle sono tutti costruiti in travertino: grossi blocchi rettangolari alle pareti, più piccoli (circa la metà) dal1'imposta in su, ancora più piccoli al centro della volta, i due semi-archi centrali sono in laterizio.

Un ambiente suggestivo, quasi sicuramente il nucleo originario su cui venne innalzata l'abbazia, dalla tecnica costruttiva e dall'impianto estremamente originali.

Uniche beneficiarie di tanta bellezza le... splendide capre che vi sono alloggiate!

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Si lascia ora il territorio della provincia viterbese per raggiungere la via Salaria ed entrare in provincia di Rieti.

Oltrepassata Antrodoco ed imboccate le Gole del Velino, ci si inoltra in un paesaggio singolare di selvaggia e inusitata bellezza. Le pareti a picco, altissime, ricoperte di scarsa vegetazione che lascia trasparire la nuda roccia, oppure irti fianchi scoscesi fitti di boschi, il fiume che scorre invisibile sul fondo e la strada, incisa a mezza costa che si srotola in anelli tortuosi.

Numerosi sono i tratti, per lo più piccoli segmenti, dell'antica originaria "strada del sale' ' che in antico partiva direttamente dalle pendici del Campidoglio.

All'altezza del decimo chilometro (circa) sulla sinistra della via una freccia indica la deviazione per il piccolo paese di Micigliano distante pochi chilometri. Proprio all'imbocco di questo diverticolo si trova una piccola casa a forma di " "elle" che una volta era un'osteria: come dice la scritta sbiadita che ancora si legge su una delle due pareti rivolte verso la via.

A sinistra di questo piccolissimo fabbricato un sentiero scende dolcemente verso il fondo valle superando l'impetuoso fosso dei Maiori, a tratti a cielo aperto a tratti interrato. Percorsi una cinquantina di metri ci si trova rasenti le rovine di uno spesso muro di cinta costituito da grosse pietre, levigate dal tempo, tirate su "a secco' ' dalle fondazioni molto profonde.

Le alluvioni e le intemperie lo hanno ridotto, in certi punti, a poco più di una traccia, ma in altri raggiunge ancora l'altezza di due metri o forse più, questo però solamente dalla parte esterna, poiché internamente il livello del suolo è superiore a quello del viottolo. Questo, ne costeggia esattamente il perimetro e torna a risalire sbucando sulla strada, sul lato destro della ex osteria, chiudendo così definitivamente il perimetro della cerchia di quella che una volta era l'importante abbazia dei Ss. Quirico e Giulitta.

Oggi il nome di questa madre cristiana uccisa con il suo figlioletto ancora in tenera età, durante una delle innumerevoli persecuzioni di Diocleziano, a Tarso di Cicilia, non evoca alcuna memoria specifica, tuttalpiù lo si riesce a collegare con la omonima chiesetta, una delle pochissime gotiche esistenti in Roma ed orribilmente sconciata da vandalici restauratori, situata proprio alla fine di via della Madonna dei Monti alle spalle del famoso Arco de' Pantani, dietro il Foro di Augusto.

Eppure basterebbe pensare che in questo complesso di rovine quasi irriconoscibili risiedette dall'anno 986 e fino al 997 il grande abate di Farfa, Ugo, che, appunto in questo anno, dopo la morte di Campone, assunse la guida della potente abbazia legando ad essa indissolubilmente e per i secoli, il suo nome.

Per comprendere chiaramente l'impianto della nostra badia allo interno del suo muro perimetrale, sarebbe necessaria una fotografia aerea tanto il suolo è infestato da una fitta e robusta vegetazione selvatica.

La sua pianta, comunque, si sviluppa in forma di una "u" abbattuta sul suo lato sinistro, per cui iniziando dall'apice del suo lato destro, divenuto orizzontale, abbiamo per primo l'edifico della chiesa la cui fronte è abbastanza sporgente rispetto a quello successivo lungo una venticinquina di metri. Da questo parte ad angolo retto il lato più corto, che è anche il meglio conservato, che a sua volta si innesta nell'altro lato lungo che giunge fin quasi a lambire la perpendicolare del portale della chiesa.

Nello spazio lasciato libero dalle testate dei due bracci, quasi al centro, è innestata la grande mole della torre campanaria semi diruta con le finestre e le tracce di una grossa fenditura malamente tamponate con massetti di tufo giallastro che spiccano vistosamente sull'antico materiale della costruzione.

All'esterno del corpo più breve c'è un bel portale con gli stipiti, l'architrave e una lunetta cieca, tutto in bel travertino squadrato, probabilmente l'ingresso del convento. Immette in un grande vano rettangolare lungo una decina di metri con la volta a botte piuttosto abbassata che va a sbucare nell'ampio spazio quadrato all'interno che poteva benissimo essere il chiostro.

Sulla destra una scaletta scoperchiata si inerpica fino sotto ad una piccola leggiadra bifora, unici elementi di un tratto di muro perimetrale miracolosamente rimasto in piedi anche se parzialmente crollato.

L'ultimo braccio è stato trasformato in casale dagli attuali proprietari che hanno lasciato rustico il prospetto esterno; ma quello interno è decisamente ammodernato. Le coperture, salvo che per quest'ultimo punto, sono pressoché inesistenti.

La facciatina della chiesa è a semplice capanna con un portale molto più povero di quello del convento ed una apertura rettangolare in alto, un semplice ?nestrone, mentre ci si sarebbe aspettati, magari, il classico rosone.

Dalle aperture si riesce a distinguere il cordolo del gradino del presbiterio ed al centro di quello spazio, un cumulo informe di tufi che potrebbe essere il supporto per la mensa dell' altare.

La storia di questa abbazia soffre di vistose lacune, ad iniziare dalla sua costruzione sicuramente anteriore, e forse anche di parecchio, alla presenza giovanile del grande abate fra le sue mura; purtroppo il documento più antico che la riguarda è per l'appunto quello del Regesto Farfense relativo ad Ugo datato 984.

Fu dipendente dalla Santa Sede e per i secoli XI e Xll godette della protezione pontificia, in particolare di quella di Gregorio VII, di Innocenzo II, di Alessandro III e di Celestino III.

Nel 1215 Innocenzo III la affida ai premostratensi nella persona dell'abate Gervasio.

Quest'ordine fu fondato da S. Norberto, nato a Xanten presso Colonia, il quale, dopo aver passato tutta la gioventù alla corte dell'imperatore Enrico V, si votò a Dio e si ritirò nella valle del Premontre (da qui il nome) presso Soisson ove gettò le basi dei "Canonici Regolari Premostratensi" ai quali diede: la regola dei S. Agostino, l'obbligo della povertà, l"abito di lana bianca e la vita comune al servizio della Chiesa.

Nella nostra piccola abbazia la loro presenza è confermata da un documento di Federico II datato 23 agosto 1230 nel quale le vengono restituiti i beni occupati dopo che, con altro dell'aprile del 1217, l'Imperatore aveva confermato il suo affidamento ai monaci di S. Norberto.

Dopo di allora non restano che supposizioni, sia sulla dipartita di quei monaci, sia sulla venuta di altri. Si possono immaginare i soliti saccheggi, i soliti spopolamenti e la solita commenda.

Unica cosa certa il passaggio alla proprietà privata ma non il quando.

Tuttavia, a giudicare dalle sue attuali condizioni, esso sembra risalire a tempi molto lontani.

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Su un colle che sovrasta la strada che da Contiliano porta a Greccio, nel territorio di Rieti, è ben visibile la poderosa massa della abbazia di S.Pastore, di cui in particolare ebbe a trattare a suo tempo (1919) il Duprè Theseider.

Sul suo titolo esistono solo supposizioni, e contrastanti tra loro; c'è chi lo attribuisce al prete romano del secondo secolo, Pastore, che aveva un titolo sul Viminale e Roma e chi invece pensa al fanciullo Pastore, piccolo martire spagnolo, fratello di S. Giusto del quale si è parlato a proposito della omonima abbazia vicino Tuscania.

Questi due bambini, figli di genitori cristiani, tuttora patroni della diocesi di Madrid, vivevano a Complutum oggi Alcalà de Henres e furono uccisi sotto il governatorato di Daciano durante una delle persecuzioni di Diocleziano. L'unica cosa certa è che non si tratta del "Pastor Bonus".

Una chiesa di questo nome, nella zona, è già ricordata in un documento farfense del 794 con l'antichissima denominazione di "Corte S. Pastore in Quinto": Quintiliano da cui è derivato il moderno Contigliano.

Si trattava, peraltro, di un piccolo edificio di culto che assicurava l'assistenza religiosa ad. un minuscolo agglomerato rurale composto di qualche casale circondato da stalle, fienili e porcili al centro di una grande estensione di terreni lavorativi, pascoli, vigne e orti. Tale definizione è ripetuta in altro documento del 945.

I monaci benedettini installati nel cenobio reatino di S. Matteo di Montecchio, sin dai tempi di papa Anastasio IV (1153-54) e poi in quelli di Lucio III (1181-85), premevano affinché venisse concesso loro di trasferirsi - data l"insalubrità del luogo ove sorgeva il loro monastero - nella zona della chiesa di S. Pastore ed ambedue i pontefici, con loro bolle, avevano accordato questo permesso.

Fu solo sotto il pontificato di Gregorio IX che essi poterono iniziare i lavori di ampliamento della nostra chiesetta, e precisamente il 14 marzo 1234, assistiti dal cardinale Goffredo Castiglioni, delegato del Papa, che sarebbe divenuto prima vescovo della Sabina e poi Papa nel 1241 con il nome di Celestino IV.

I bravi monaci, che appartenevano alla filiazione cistercense di Clarivaux (Chiaravalle) nutriti di idee grandiose, cambiarono presto idea. Non si accontentarono affatto di adattare l'edifizio alle loro esigenze, ma lo demolirono del tutto, iniziando la costruzione di un complesso di fabbricati perfettamente in linea con le tradizioni architettoniche del loro Ordine e cioè un ampio chiostro ai lati del quale sorgevano: la chiesa, l'edificio per i monaci comprendente il parlatorio e l'aula capitolare, la fabbrica per i conversi ed infine il corpo con i locali di uso comune: refettorio, cucina, dispensa e magazzini.

Nel 1244 i monaci risiedono ancora nella vecchia sede, nel 1255 inizia la costruzione della chiesa che verrà ultimata nel 1264, dopo di che ha luogo finalmente il trasferimento.

La ricchezza dei possedimenti, la fertilità dei terreni, la fama di santità e di studi fecero della nostra abbazia una delle più importanti e considerate. Nella mentalità dell'epoca contribuì non poco a questa fama, la imponenza e maestosità della chiesa che i monaci avevano costruito con le loro sole forze aiutati soltanto da poca manovalanza locale.

L'edificio, con pianta a croce latina, malgrado non sia più che un cumulo quasi uniforme di rovine, sepolto sotto una foresta intricata di vegetazione selvatica, ostenta ancora con fierezza un superbo arco trionfale alto sicuramente più di venti metri. Il coro sembra essere stato a pianta quadrata fiancheggiato dalle uniche due cappelle della chiesa.

Esternamente all'abside della chiesa due alti manufatti resi appuntiti dai rovinosi crolli denuncerebbero l'esistenza di due torri quadrate, una la campanaria e l'altra forse di avvistamento.

I muri distaccati e sporgenti all'infuori impediscono l'accesso perfino nei vani terreni per cui non è possibile oggi constatare se sono del tutto sparite le tracce di affreschi della chiesa, la splendida decorazione cinquecentesca e gli artistici camini dell'appartamento del commendatario ancora visibili negli anni '30 di questo secolo. A quell'epoca era rimasta ancora in loco una campana, la maggiore, datata 1292 con inciso il nome del fonditore "Dominicus Urbevetanus".

Purtroppo il nostro S. Pastore, dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nel corso del quattordicesimo secolo, inizia lentamente la sua parabola discendente sebbene la comunità fosse ancora numerosa e le attività ?orenti. Nel 1342 constava infatti di ben 21 persone compreso l'abate Gentile, ma nel 1397, sotto l'abate Nicola esse erano diminuite sensibilmente.

Il destino infausto della commenda si profilava incombente, conseguenza fatale dopo le solite motivazioni, comuni a tutte le abbazie di quel tempo.

Sopra i dormitori dei monaci si ricavarono degli ampi locali che costituirono l'appartamento del cardinale commendatario la cui prima sistemazione risale al primo quarto del quindicesimo secolo. I successivi lavori di trasformazione interessarono anche la facciata di quella frazione di fabbricato e le finestre che si affacciano sulla splendida vallata in direzione sud-sud ovest vennero ornate da timpani vuoi a tettuccio, vuoi a capanna vuoi ad arco; un paio di esse recano ancora le tracce di strutture che fanno pensare ad un balconcino.

Il primo cardinale commendatario risulta essere, nel 1426, Gaspare Colonna. Lo seguì Giordano Orsini che, nel 1432, nominato vescovo della Sabina, lasciò la carica a Giuliano Cesarini cardinale di S. Angelo in Pescaria. Nel 1482 troviamo il cardinale Silvestro Nobili di Labro cui seguì Ludovico Scarampi Mezzarota di S. Lorenzo in Damaso.

Inizia poi la lunga seria degli Spinola che terminerà nel 1537 con la morte del cardinale Agostino, camerarius.

Nel 1561, però, una visita apostolica del cardinale M. A. Amulio delegata ai monsignori Gerolamo Gallo e Pietro Cappelletti lamenta la mancanza di monaci e la presenza di due soli sacerdoti regolari e quattro servi.

Nel 1547 il vescovo Camaiati la dichiara squallida e deserta, mentre nel 1578 il vescovo Bargellini lamenta di averla trovata abbandonata.

Nel 1582 il commendatario del tempo, un Colonna, decide di dividere l'abbazia destinandone una metà a lui ed agli altri cardinali suoi successori e l'altra metà ai canonici lateranensi che, come si è visto, dovevano avere già da qualche tempo le mani in pasta!

Alla fine del diciottesimo secolo la bufera repubblicana portò alla soppressione della parte spettante al clero regolare mentre la parte commendataria era già stata ceduta in enfiteusi nel 1786 ai Santacroce-Publicola che l'avevano ottenuta per la somma annua di scudi trecento.

Pio VII ristabilisce nel 1814 la commenda per intero, cumulando altresì i due titoli di abate e Commendatario, dei quali viene investito mons.Francesco Tiberi, divenuto poi cardinale; alla di lui morte essa è ereditata dal nipote mons. Luigi Tiberi. L'ultimo commendatario fu il cardinale Domenico Luccardi fino a poco oltre il 1859.

Nel 1834, rilevata l'enfiteusi Santacroce ed acquistati gli altri terreni e fabbricati, erano divenuti proprietari di tutto il fondo già di S. Pastore i marchesi Potenziani di Rieti cui si deve riconoscere una certa conservazione, anche se parziale, del complesso abbaziale specie per quanto riguarda l'appartamento del cardinale.

Purtroppo, in questi ultimi cinquant'anni i passaggi di proprietà della tenuta - del quale S. Pastore è divenuto un semplice accessorio pittoresco - hanno portato l'intero fabbricato molto vicino alla completa distruzione.

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A mezza costa del monte Mirteto e posta ad uguale distanza tra la soprastante Norba, e la sottostante Ninfa, ai confini quasi di quella zona che una volta si chiamava Campagna Marittima, e che grosso modo corrispondeva al territorio del boni?cato Agro Pontino, centro e cuore dello scomparso feudo dei Caetani, si trovano le rovine della abbazia di S. Maria sul monte Mirteto attualmente più conosciuta come "S. Angelo sopra Ninfa' ', sulla quale si può utilmente consultare l'articolo di Dom Mauro Cassoni, sulla "Rivista Storica Benedettina" del 1924.

Il suggestivo e poetico nome di monte Mirteto richiama alla mente i versi che Virgilio gli dedicò nel libro settimo delle Bucoliche quando cantava: "formosa myrtus Veneris... " ed ancora, quelli del libro quarto delle Georgiche: "amantes litora myrtos. . "

Il fulcro originario della devozione popolare fu una grotta contenente già un altare sopra il quale erano affrescati da una parte il SS. Salvatore con ai lati S. Pietro e S. Paolo dall'altra una Madonna che allatta il S.Bambino ed infine un S. Michele Arcangelo sul quale, principalmente, convergeva il culto dei fedeli sin da tempi antichissimi.

Fu consacrata nel 1185 sotto papa Lucio III per "manum p. signini episcopi ex mandato supradicti papae' ' come recita una pergamena di un codice sparso.

Lo stesso codice ci dice che ricevette la visita di "Octavianus Hostiensis Velletrensis episcopus" ed aggiunge "rogatus patris Archipresbitery sancti Pauli de Nimpha".

La nostra cappella, ancora dedicata a S. Michele Arcangelo, venne amministrata dal clero regolare della città di Ninfa sino al 1212. Si hanno notizie che in quella zona esisteva un monastero chiamato S. Maria di Tor Tre Ponti ed un altro cistercense, a due chilometri da quella antica cittadina, chiamato S. Maria di Marmosole, ambedue completamente scomparsi.

Il 5 ottobre di quello stesso anno, Ugolino dei conti di Segni, vescovo di Ostia, che fu sempre animato da grande devozione nei confronti della Grande Madre di Dio, e che da tempo si interessava alla costruzione in quel luogo di una grande abbazia con altra chiesa, affidò la nuova costruzione, che doveva comprendere anche la vecchia senza distruggerla, ai monaci cistercensi della Calabria detti Florensi fondati dal beato Gioacchino da Gelico.

Era costui il figlio di un notaio che potrebbe aver trascorso la sua giovinezza alla corte normanna. Sembra anche che abbia effettuato un viaggio in Terrasanta poiché in uno dei suoi scritti, e precisamente nel " "Tractatus super quatuor evangelia" affioravano riminiscenze giovanili di quella esperienza.

Nel 1165 la troviamo frate portinaio del convento cistercense della Sambucina e già autorizzato a predicare. Fu ordinato sacerdote a Corazzo nel 1171 dove nel 1177 viene nominato abate. Nel 1182-83 risiede a Casamari. Fu di lì che si recò a Veroli (o a Segni) da papa Lucio III, che ivi si era rifugiato, per essere autorizzato a mettere per iscritto le sue idee esegetiche sulla Sacra Scrittura, ma queste, già nel 1188 gli procurarono un "admonitorium" indirizzatogli da Clemente III datato al giorno 8 di giugno, anche se lo stesso Papa l'anno precedente lo aveva autorizzato a dimettersi da abate per dedicarsi ai suoi studi.

Si ritirò da eremita in Sila ove fu raggiunto da seguaci, primo fra tutti il monaco Raniero. Con lui fondò il primo convento: l'eremo di S. Giovanni da Fiore e costituì il nuovo Ordine che fu detto appunto "Florense" e che fu approvato da Celestino III nel 1196.

Scrisse opere molto importanti ma quasi tutte fieramente avversate.

Morì a S. Giovanni nel 1202 e per tutto il XIII secolo il suo Ordine fu al massimo del suo splendore. Iniziò a decadere nel XV secolo particolarmente per l'introduzione della commenda. Nel 1570 Pio V ne decretò l'estinzione riunendolo con i cistercensi.

Al momento della chiamata del vescovo Ugolino i ?orensi erano in grande espansione e si dedicarono con grande slancio al compimento dell'abbazia che, a giudicare dalle rovine ancora in sito, doveva comprendere almeno tre fabbricati. Da lontano (poiché la strada per raggiungerla è veramente impraticabile!) sembra di distinguere anche l'apertura di una grotta.

Il primo abate di S. Maria sul monte Mirteto u un certo Benedetto.

Onorio III, che era stato legato della Santa Sede nelle Calabrie ed era grande estimatore e protettore di Gioacchino, si affrettò a confermare le donazioni ed i privilegi con bolla del 12 ottobre 1212.

L'elezione al S. Soglio del vescovo Ugolino assicurò alla nostra abbazia la sua benevolenza, non solo, ma da Celestino IV a Bonifacio VIII la protezione ininterrotta del papato la colmò di lasciti e benefizi.

Con la morte del pontefice anagnino inizia la decadenza di S. Maria, in concomitanza con il declino dell'intero Ordine. La situazione si trascinò stancamente sino al 1432, anno in cui, umiliato l'antico decoro, venne annessa come semplice "grangia" al cenobio di S. Scolastica di Subiaco.

La grangia è un'organizzazione di persone e beni aventi le caratteristiche di una grande azienda agraria di piano, nella quale tutte le figure economiche della produzione, cioè quella del proprietario, dell'imprenditore e del lavoratore, sono riunite della persona giuridica dell'abbazia. Le persone sono i monaci o i conversi ai quali si aggiungono i salariati. Le grangie, composte talvolta da varie cascine, sono indipendenti l'una dalla altra, ma insieme dipendenti dal cellerario dell'abbazia.

Nella grangia l'abate è rappresentato da un preposito priore, in pratica il rettore della cappella della fattoria, mentre il cellerario è rappresentato da un monaco grangiere o fattore.

A causa delle sue notevoli ricchezze, la nostra protagonista fu oggetto di altrui ambizioni e cupidigie e subì un perpetuo avvicendarsi di usurpazioni e di recuperamenti da parte dei sublacensi fino ai tempi di Leone XII.

Dal terremoto del 1703 tutto il complesso era rimasto fortemente danneggiato e nel 1796 i monaci di Subiaco ristrutturarono e ribenedirono le due chiese della loro grangia. Un altro restauro avvenne nel 1836 come testimoniava una lapide ancora esistente negli anni '20.

Un altro diverso terremoto, quello del 1870, provocato dalla "Giunta Liquidatrice dei Beni Ecclesiastici", abbandonò la povera abbazia nelle braccia della proprietà privata la quale, per questi edifici di tipo particolare può benissimo essere paragonata alla "commenda" di famigerata memoria.

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Ugolino, vescovo di Ostia, che sarà papa con il nome di Gregorio (1227-1241), era nativo di Anagni ed aveva una spiccata predilezione per l'ordine florense; suo fratello Adenolfo, avendo conosciuto ed intrattenuto rapporti con S. Francesco, mostrava di preferire gli scalzi fraticelli di Assisi.

Desiderava, il buon Adenolfo, costruire una cappella in Anagni da affidare ai francescani e donò loro un appezzamento di terreno, il fondo Arenzano, con torre annessa. Purtroppo Adenolfo morì prima di vedere appagato il suo desiderio, ma Ugolino per amor suo la fece completare, la dedicò a S. Martino e lo concesse a quei frati.

Nello stesso tempo, però, il vescovo stava facendo costruire su di un fondo attiguo a quello di Arenzano un monastero che intitolò alla gloriosa Vergine Assunta in cielo, della quale era molto devoto. Nelle sue intenzioni in questo convento si doveva pregare per i defunti della sua famiglia e per questo gli sembrarono più idonei i ?orensi che osservavano una clausura che permetteva loro una vita più contemplativa temperata dalla coltivazione della terra. .

In un secondo tempo ritenne addirittura opportuno unire le due chiese di S. Martino e della Vergine Gloriosa in un unico complesso, trasferendo i francescani, dopo averli provveduti di un'altra sede, poco più lontano di lì in una località che da loro prese il nome di Borgo S. Francesco.

Dall'unione dei due conventi nacque così l'abbazia di S. Maria della Gloria - tutt'oggi chiamata anche "la Joria" - detta anche in "Monte Aureo" perché così si chiamava la località in cui si trovavano i possedimenti dei due fratelli, anche se, specialmente nei primi tempi, veniva ancora chiamata la chiesa di S. Martino. Chi voglia, potrà ricorrere, per essa, ad uno studio di F. Caraffa del 1940. Certo è che la data precisa della sua fondazione non si può facilmente stabilire; comunque la costruzione non può essere iniziata prima della bolla di fondazione che Onorio III emanò in data 19 marzo 1226 e nemmeno dopo che uno strumento dell'arcivescovo Ricardo di Cantorbery (Canterburyi?) in data Luglio 1231 nominava il monastero "quod de novo apud Anagnum in Campania. ._ Gregorius papa construxit"

Sin dalla sua fondazione essa venne assoggettata all'altra già vista abbazia ?orense nel Lazio e cioè S. Maria di monte Mirteto, nella costruzione della quale tanta parte aveva avuto il nostro Ugolino prima vescovo di Ostia ed ora Pontefice. Ed i suoi primi abitatori furono tutti monaci provenienti da quell'abbazia i quali elessero abate un certo Giovanni di Ninfa.

Fu stabilito che non si dovesse mai superare il numero di dodici monaci e ventiquattro conversi e che l'abbazia dovesse essere soggetta solo al Romano Pontefice al quale ogni abate che fosse stato eletto doveva recarsi a chiedere la benedizione. Era stata riccamente dotata e benché di recente istituzione possedeva un patrimonio complessivo che la metteva alla pari con gli altri ordini monastici.

Con la morte di Alessandro IV avvenuta nel 1261 la nostra abbazia comincia a soffrire della diminuita protezione del Papato su di lei; difatti cominciarono le imposizioni di pagamento delle decime che sino ad allora le erano state risparmiate.

Gli acquisti dei Gaetani, che sulla fine del tredicesimo secolo riescono a diventare padroni assoluti della regione, la guerra tra Anagni e la lega antipapale, le devastazioni delle bande armate, tutto contribuì a danneggiare ma, soprattutto, a spopolare il monastero e questo significava la rovina.

Nel 1332, ridotti al numero complessivo di otto i monaci dovettero rivolgersi ad un procuratore "esterno" per curare i loro interessi nella Campagna e nella Marittima.

Malgrado l'interessamento di Benedetto XII che, da Avignone, inviava una lettera nel 1399 al vescovo di Anagni perché si interessasse di S. Maria della Gloria, le cose precipitavano "sia nel temporale che nello spirituale" tanto per usare una frase consueta, e, difatti, nel 1373 fu necessario istituire una commissione che riformasse tanto la nostra abbazia che il convento matrice dell'Ordi.ne, il S. Giovanni da Fiore in Calabria.

Sul finire del quattordicesimo secolo, l'abate del nostro monastero in " "Monte Aureo" , Nicola Benvenuti, uomo energico ed intelligente ma troppo politicamente impegnato, la coinvolse nelle vicende dello scisma d'occidente, come ebbe a lamentarsi decisamente Bonifacio IX in un documento del 1399, e cominciò a profilarsi l'ombra cupa della commenda.

Poco più di cinquanta anni durò la serie dei cardinali commendatari ma furono più che sufficienti per ridurla in condizioni tali che Paolo II (1464-1479) decise di unirla ai canonici regolari di S. Giovanni in Laterano.

Papa Sisto IV richiamò in quella basilica i canonici secolari nel 1471 e sul possesso della nostra abbazia nacque, tra le due congregazioni, una controversia che solo nel 1477 permise ai secondi di acquisirne le proprietà.

Nel 1739, con rescritto di Clemente XII fu data in en?teusi alla famiglia Martinelli di Anagni alla quale tuttora appartiene.

A seguito dei grandi lavori di sbancamento per la costruzione della superstrada che congiunge la Casilina con la Prenestina, tangente all'autostrada a cui è ottimamente raccordata, il "Monte Aureo", su cui l'abbazia di S. Maria della Gloria è costruita, si è venuto a trovare in una posizione di rilievo, lambito come è alla sua base dal nastro asfaltato. Appena superato il sovrappasso per entrare in Anagni, e per qualche chilometro ancora, lo si può ammirare stagliato come è contro il cielo fino a che la prima curva non cala, a guisa di sipario, togliendolo alla nostra vista.

Quello che si vede sulla cima del rilievo è un complesso di edifici sulla tipologia di quelli cistercensi dai quali i florensi derivarono e nel quale poi riconfluirono, sviluppato in forma rettangolare, tutto edificato in pietra locale, quel tufo giallastro di cui il suolo anagnino è particolarmente abbondante.

Tre dei quattro angoli sono muniti di torre, una delle quali, più alta e robusta delle altre, fu adibita a cappella quando la vecchia chiesa divenne inagibile. Qualche reperto è stato utilizzato qua e la, qualche lastra, qualche colonnina, un'urna che fungeva da acquasantiera.

Nel secolo diciottesimo tutto il complesso fu racchiuso in un solido muro nel quale si apre un ampio cancello.

Lo stile della intera costruzione è un romanico rustico e sobrio che, anche se appare meno elegante e leggiadro del solito, emana un senso di mistica severità perfettamente aderente allo spirito, negli inizi, dello scomparso ordine monastico che a molti sembrò dovesse essere il punto di partenza di una generale ondata di riforma e purificazione dei vari ordini monastici esistenti.

Vittorina Novara

(1) Mi sono stati di guida in questi vagabondaggi, per citare solo alcuni lavori di particolare interesse, oltre ai dizionari ed enciclopedie specializzati e al noto Silvestrelli (1940), il Latium del Kehr (1907), la Bibliotheca Sanotorum (1961) e il Monastikon Italiae. Latium di mons. Filippo Caraffa (1982) il Dizionario degli Istituti di perfezione (1974), l'Imperiale Abbazia di Fara di I. Schuster (1921) ecc. Studi particolari su singole abbazie saranno citati a loro luogo.