Nel firmamento della poesia dialettale romana brillano luci di varia grandezza: vi splendono fulgidi astri, ma numerose sono le tremule stelline che punteggiano il cielo della Erato romana. Esse appaiono e scompaiono nella memoria dei più appassionati intenditori, degli estimatori più competenti, perché, questi poeti, al pari delle luci della volta celeste, sono numerosi, anzi numerosissimi.

Impossibile tenerli tutti a mente, ricordare quel mare, anzi quell'oceano di versi che è scaturito dal cuore romano.

Molto influisce, come dicevamo, la presenza degli astri maggiori che, naturalmente, accentrano su di sé la maggioranza degli sguardi per la potenza della luminosità loro che, traslando dal paragone che abbiamo fatto, sarebbe poi la forza della loro personalità artistica.

E' naturale, quindi, che un Poeta, nato nell'era di un Pascarella, di un Trilussa,di un Zanazzo abbia sofferto la superiorità di questi suoi colleghi e non abbia trovato sufficiente spazio per far conoscere maggiormente la sua vena, più sommessa e più tenue ma non per questo meno valida.

E' il caso del poeta romanesco Cesare Crescenzi nato a Roma il 22 ottobre 1867 al numero civico 27 di via Frattina e battezzato nella vicina parrocchia di S.Andrea delle Fratte con i nomi di Cesare, Pietro, Raffaele,Filippo.

Era figlio di Giovanni Battista, di professione sarto, immigrato da giovane nella Dominante dalla natia Piperno, e di Giacoma Tesauri, nata a S.Severino marche, detta "Moma", claudicante per una molto probabile poliomelite infantile che le aveva lasciato un fisico piccolo e minuto ma che l'aveva formata di un carattere di ferro.

Prima di Cesare era nata Anna che era deceduta ancora in fasce. Dopo di lui sarebbe nata Ersilia (nel 1874) che andrà sposa allo scultore Gustavo Sassi e che mancherà ai vivi nel 1951.

Cesaretto, come lo chiamavano in famiglia, non era molto amante dello studio. Preferiva frequentare la parrocchia per poter giocare con gli altri bambini, oppure si dava da fare come chierichetto,e, poiché era abbastanza ubbidiente e rispettoso, non incontrò mai la riprovazione grave né degli insegnanti né dei sacerdoti della sua nuova parrocchia: S.Eustachio, poiché la famigliola si era nel frattempo trasferita in via di S.Chiara n.1.

Con un po' di fatica arrivò pure a conseguire la sospirata licenza: anche se solo con 68 su 110 e nella sessione autunnale la scuola tecnica Aldo Manuzio lo annoverò, tra i promossi dell'anno scolastico 1886/87.

Dopo, naturalmente, toccò andare sotto le armi ma, il soldatino Cesare Crescenzi, dopo solo tre mesi di servizio, ebbe il suo bravo congedo illimitato; forse per motivi di salute.

Per un breve periodo - qualche mese - lavorò come giornaliero presso il ministero degli Interni ma, finalmente, tra la fine del 1888 e l'inizio del 1889 vinse un concorso indetto dal Comune di Roma a seguito del quale il 20 marzo del 1889 prendeva servizio con la qualifica di "Alunno".

Nei poco più di ventisette anni di servizio prestati non si fece davvero notare per assiduità e zelo. Fu per lunghi periodi assente per malattia, ma, non erano, come vedremo, tutte bugie.

Negli ultimi tempi prestava servizio presso l'ufficio matrimoni dei servizi di stato civile che, in quel periodo, era sistemato a palazzo Poli con ingresso su piazza dei Crociferi.

Era molto frequente trovarlo seduto sui sedili della vicina fontana di Trevi dove, diceva, la sua musa traeva ispirazione dal dolce mormorio delle acque mentre si sarebbe decisamente inaridita se lui avesse seguitato ad avallare con la sua presenza le corbellerie (cioè i matrimoni) degli altri.

Scapolo impenitente visse sempre con i genitori che, nel frattempo, nel 1893, erano tornati in via Frattina ma, questa volta, al n 59 dove rimasero solo tre anni per trasferirsi poi definitivamente in via di Campomarzio al n.19 dove, qualche anno dopo perdette il Padre.

Amava moltissimo la sua mamma alla quale dedicò più di una poesia la migliore delle quali resta senz'altro la prima parte di " A mi madre" riportata nel libro del Possenti cui più avanti parleremo.

La sora Moma, da parte sua, lo adorava. Questo suo figlio poeta era tutta la sua ambizione e tutto il suo orgoglio; certo amava anche la figlia Ersilia, ma le soddisfazioni che le dava il suo Cesaretto con le sue pubblicazioni ed i piccoli riconoscimenti che ne derivavano erano tutt'altra cosa.

Nell'aprile del 4906 la Regina padre Margherita, quale ringraziamento per un omaggio di versi, gli inviò una fotografia con dedica autografa; nel maggio del 1912, per un altro identico motivo, gli faceva dono di un portasigarette con inciso il suo monogramma e le armi di Casa Savoia.

Possiamo figurarci con quale emozione il giorno di sabato 6 giugno dello stesso anno, al ritorno dall'ufficio ascoltò il racconto del figlio il quale le disse come Ernesto Nathan, il signor Sindaco in persona, nel suo studio in Campidoglio, gli avesse consegnato l'augusto dono!

Finalmente, poi, il 20 luglio di quello stesso anno, su proposta del ministero della Pubblica istruzione, arrivò il decreto di nomina del cavalierato della Corona d'Italia!

E fu l'ultima soddisfazione di quell'infelice donna.

Solo tre anni dopo tutto precipitò in un abisso di disperazione: il povero Cesare, il suo Cesaretto, malgrado il fisico robusto e lo aspetto florido, sul finire del 1915 dovette essere ricoverato all'ospedale di S.Spirito e qui, dopo parecchi mesi di sofferenze, cessò di vivere il 16 aprile del 1916.

La povera Moma, più che ottantenne, delirò per altri quattro lunghi anni prima di poterlo raggiungere nella pace del Signore.

Scomparso dalla scena, il poeta Cesare Crescenzi affondò poco a poco nella dimenticanza.

Finché vissero i suoi amici, i suoi estimatori contemporanei il suo nome circolò ancora per un po' di tempo, ma, con gli anni, l'oblio più profondo cadde su di lui.

La profonda competenza, oltre che l'estrema sensibilità, di Francesco Possenti - apprezzato poeta egli stesso - lo ha tratto da decenni di silenzio, inserendolo in quella sua esauriente trattazione su i "Cento anni di poesia romanesca".(1)

A pag.311, oltre a due righe di carattere biografico, vengono indicati i titoli delle sue tre pubblicazioni:

Parole de core - Roma 1899

Un po' de sentimento - Roma 1901

Sonetti Romaneschi - Roma 1904

seguono poi gli stralci di alcune delle composizioni in esse contenute: Affetto de madre;

Davanti ar retratto de Mamma; Esse bona; A mi madre; La purce e la rosa; All'osteria; definendolo, infine, nel breve commento: "...voce minore nel coro dei poeti dialettali, ma tuttavia intenta a riecheggiare i sentimenti familiari, l'amore della carità, il dovere."

E' vero, certamente, che Cesare Crescenzi fu il cantore dei sentimenti più semplici, del romanticismo sentimentale, tanto in voga agli inizi di questo secolo ed alla fine di quello precedente. Se rileggiamo, però con più attenzione la sua produzione ci accorgiamo che egli non è un poeta minore ma potrebbe essere, invece, un poeta poco considerato soprattutto dai suoi contemporanei anche se essi hanno dalla loro la giustificazione di cui parlavamo allo inizio: la presenza di quegli astri maggiori che fatalmente facevano sembrare più flebili le altre luci.

Forse se non avesse dovuto misurarsi con quei Grandi Egli avrebbe avuto maggiori possibilità di approdare alle rive di una conoscenza più consistente,più estesa.

Lui stesso, sicuramente, si sarà sentito condizionato nei confronti di quelli che, certamente, avrà considerato i suoi maestri.

Un altro motivo di condizionamento potrebbe essere stato lo spirito e le mode della società dell'epoca. C'è, infatti, una parte delle sue poesie che manca di spontaneità e di naturalezza, quella dedicata ai soggetti che potremmo definire d'obbligo per un poeta dialettale di quel periodo: Nina, i fiori, il sole, gli Eroi nazionali (nel caso Garibaldi e Verdi), i personaggi del passato (Raffaello e la Fornarina).Completamente diversa da quella che verte sugli spunti psicologici, sulle considerazioni, le riflessioni che il vivere comporta.

Sembra quasi che la prima sia stata realizzata così, senza convinzione, tanto per farsi sentire, per coprire il ruolo, mentre la seconda è quella che gli veniva di getto, che gli saliva più sincera dal cuore e quindi la migliore.

Di conseguenza, anche se la sua statura non si può definire "eccezionale" o "gigantesca" c'è in questa parte delle sue composizioni un qualcosa che lascia trasparire una profondità imprevista, che riesce a trasformare il discorso, iniziato in leggerezza, in qualche cosa di sofferto in certi casi persino di drammatico.

Come succede in genere ai figli di genitori anziani, Cesare era stato condizionato dal morboso, soffocante affetto dei familiari che, unitamente ai suoi problemi di salute non gli avevano consentito a sufficienza in formarsi di una sua vera e sincera personalità. Alternava momenti di dolcezza e giovialità a scatti impetuosi di insofferenza e ribellione, cosa naturale e scontata nei soggetti che vivono quelle situazioni, ed il suo scrivere, evidentemente, risente di queste conflittualità che rende così diverse certe sue espressioni.

Ad esempio nella poesia

ER FAZZOLETTO ROSA

Eppure quarche cosa m'è restato
de te che m'hai rubato anima e core
de te che come un cane m'hai lasciato
senza nemmanco un bacio, senz'amore.
E' n'anno giusto che m'hai rigalato
un ber fazzolettino de colore
senza penzacce nun te l'ho ridato
ancora cel'ho drento al tiratore.
Addesso si lo vedo me vié' voja
de daje tanti mozzichi e strappallo
e si n'è vero vorrei esse 'n boja.
Jer sera_a la più corta 'nder guardallo
incominciai a tremò come 'na foja
e, brutto vile, me toccò baciallo!

dove alla leggerezza delle due quartine iniziali, scorrevoli e descrittive, si contrappongono le due terzine seguenti che presentano un discorso completamente opposto con quel "brutto vile" che suona come la risata singhiozzo di Canio nei Pagliacci.

Del resto non è la sola lirica in cui la cattiveria umana ricopre il ruolo di protagonista. Ne 1'

ULTIMA SERENATA

Ma nu' lo vedi che me so' stufata?
Ma dunque nun t'accorghi che me fai
sta male si te vedo?...Io so' rinata
quanno me lassi perde e te ne vai!
Si te credi che ruzzo, l'hai sbajata,
te lo dico sur serio e casomai
te penzi che de te so' innamorata,
hai da sapé che 'n t'ho cercato mai!
Senti, nun scrive più che m'hai scocciato
riecchete l'anello che ci'ho ar dito
ripijete 'sti fiori che m'hai dato.
Si te ...baciai quer giorno, so' crapicci
che dureno un momento: mo' è finito;
vattene, fijo mio, che tu m'impicci!.;.

la crudezza e l'aridità della protagonista, oltre all'egoismo più disinvolto del suo comportamento, sono resi con un fraseggio semplice e naturale ma al tempo stesso per fido e penetrante quanto mai.

Ma il nostro poeta è anche pronto alla replica, ecco qua

NUN CE RUZZATE

Quanno ve parlo io nun so che sia
fate l'indifferente, la preziosa
M'ammollate sù e giuù quarche bucia
ve divertite a fa la schicchignosa!
E fateve escì er fiato, bella mia
Nun me volete bene? e pe sta cosa
nun ve c'impenzierite, vado via.
E' stato un crapicetto, sora sposa!

Dove si sente che il dispiacere e l'amarezza sono sopraffatti da un più forte senso di irritazione, dalla seccante constatazione di essere stato preso in giro e nel non voler dare all'interlocutrice alcuna soddisfazione. In poche righe una vasta gamma di sentimenti.

In netto contrasto con la precedente, la poetica realtà di

PE' STRADA

Sur marciapiede c'era 'na ferata
che dava a la cucina d'un trattore.
Na povera creatura inzaccherata stava lì a sede, armeno da du' ore.
Se po' sapé che fai così sdraiata?
che, stai a spaghettà cor friggitore?
Arzo l'occhi .... me diede 'na guardata
e poi me disse...Stò a sentì l'odore!
Me fece pena e ne la trattoria
comprai quarche cosetta e je la diedi
- E mò perché nun magni, bella mia?
Divenne rossa, peggio de 'na fiamma
se prese l'invortino, s'arzò in piedi
poi fece: Grazzie .... porto tutto a mamma!

dove la semplicità e l'immediatezza impediscono a questo bozzetto di scadere nella solita oleografia sentimentale ottocentesca.

Una constatazione che riesce facile e spontanea, osservando la generalità della produzione di Cesare Crescenzi, è questa: nella brevità il Poeta riesce a dare il meglio di sé.

Piccole cose come

ASTRONOMIA

Quanno ve guarda, er sole, ce scommetto
Che ve scotta e ve brucia le fattezze
Perché ci ha invidia che ce sia 'n visetto
mejo der suo pe' grazia e pe' bellezze!
Ma copriteve er viso cor ventajo
Così er soles'arrabbia e magna l'ajo!
Quanno sorte la luna, fate caso,
guarda co' 'n aria indifferente,
storce l'occhi, la bocca, ariccia er naso,
perché in confronto a voi nun vale gnente.

O come

PEPE E SALE

Io dico che se c'è 'na ciumachella
piena de pepe e sale e simpatia
siete de certo voi, regazza bella
impastata de grazia e d'allegria.
Poss'esse benedetta chi v'ha fatto
cussì carina e sverta , come 'n gatto
e sete all'occhi mii cussì graziosa
che me parete 'n bottoncin de rosa!

rilevano il fondo del suo carattere arguto e gioviale. Da buon romano era amante della buona tavola, della buona compagnia e, naturalmente delle donne, le quali, come sempre nella vita degli scapoli impenitenti, ebbero una grandissima parte nella sua esistenza e di conseguenza nella sua poesia nella quale riversò le sue sofferenze e la sua sfortuna.

Per quanto si sforzasse, però, la voce grossa e la faccia feroce non erano davvero il suo forte. Lui protestava, faceva scenate

...sò' geloso dell'aria ch'arispiri
der sole che te guarda tutt'er giorno
so' geloso dei fiori ch'arimiri..(2)

ma non serviva a nulla.

A volte non era privo di una certa ironia come dimostrano questi

BACI SPRECATI

Vorrebbe diventa quer ber soriano
pe' godemme le grazzie che je fate
pe' godemme er calluccio della mano
le carezze,li baci e l'abbracciate!
Dimme si quanti baci t'ha stampati
su quell'occhietti tui da traditore,
poveri baci, sì, baci sprecati!

Con l'avanzare della maturità la sua vena si immalinconì sempre più. La solitudine spirituale e le sempre più decadenti condizioni di salute lo portano a rimpiangere qualche occasione perduta

.. sarebbe bello adesso ch'è svanita
la mejo gioventù, che l'anni boni
sò' stati sempre un sogno della vita
………. sarebbe bello che 'sto poro core
dovesse gode armeno p'un minuto
quanno sente si che vor dì l'amore ........ (3)

sino ad arrivare alla più alta intensità drammatica che si sviluppa ne

ER RAGNO

Er ragno fa er lavoro e chiotto chiotto
s'annisconne ner bucio: viè er moscone
E imbocca ne la rete: tutt'a un botto
er ragno je stà sopra, sur groppone
Co' le gamme lo strigne, lo tiè sotto
finchè je succhia er sangue e in conclusione
doppo quarche minuto è bell'e cotto.
E er ragno s'arimette in posizione.
Io pure so' cascato ne' la rete
e tu, brutto ragnaccio senz'amore
Me tienghi sempre stretto, hai sempre sete!
Finiscime: però pe' compassione
famme morì co' la speranza in core
che nun te succhierai n'antro moscone!

amarezza ed infelicità resi magistralmente con una similitudine tanto rispondente quanto efficace. Con tanta sincerità e naturalezza da potersi definire realismo con un anticipo di parecchi decenni.

Forse il suo romanesco non è sempre perfetto e neppure sempre omogeneo.

Certi vocaboli si trovano in forme differenti, ad esempio cussì è detto anche così, schizzinosa può essere anche schicchignosa e molti altri.

Potrebbe anche darsi che ciò derivi anche da una mancata correzione dei testi da parte dell'autore o addirittura della revisione delle bozze. Sarebbe molto pertinente con il carattere di Cesaretto sempre molto poco incline a tutto ciò che poteva assomigliare a precisione.

Esiste, infine, anche una sua quarta pubblicazione dal titolo "Nuovi sonetti romaneschi" editi in Roma nel 1909 per i tipi di Aristide Soderini.

E' probabile che si tratti di una riedizione dei "Sonetti" del 1904, forse arricchita con qualche cosa di nuovo ma, data la irreperibilità dell'edizione del 1899 e di quella del 1904 non è possibile essere precisi al riguardo.

Nell'unica edizione critica esistente nei suoi confronti, e precisamente la pubblicazione del Possenti che abbiamo citato alla nota (1), mancano tutti i componimenti sparsi, tutte le poesie che egli dedicava alle persone che più gli erano vicine o che gli interessavano in modo particolare delle quali, proprio per questo loro carattere personale che rivestivano, non rimane alcuna traccia.

Di una soltanto si è a conoscenza, poiché, data l'importanza del personaggio cui era stata dedicata, era stata stampata: si tratta di un'ode dedicata al comm. Fausto Aphel nel 1914 allorché questi era il Regio Commissario al Comune di Roma.

In essa l'autore elogia soprattutto la bontà di cuore di quel personaggio che fu senatore del Regno, politico ed esponente ad alto livello della massoneria Scozzese.

E quella bontà, si suppone, egli avesse avuto più di una occasione per sperimentarla!

Povero Cesare, non fu, indubbiamente, la sua una esistenza fortunata.

Sul frontespizio dell'ultima edizione dei suoi sonetti, quella del 1899 pubblicata da Staderini, una riconoscente dedica del Poeta al suo Editore riesce in qualche modo a dare un'idea dell'Uomo che, in cambio di solitudine, dolore ed infermità, ebbe in sorte dalla vita il dono della Poesia.

Vittorina Novara

(1)Francesco Possenti "Cento anni di Poesia romanesca" Staderini - Roma 1966

(2) dal sonetto "Gelosia"

(3) dal sonetto SECONDA GIOVENTÙ