IL SANTUARIO DI S. MARIA DELLE GRAZIE ALLA MENTORELLA sul Monte Guadagnolo

Il santuario della Mentorella si trova su di un ciglione poco al di sotto della cima del monte Guadagnolo (1218 m.), altura che fa parte dei Monti Prenestini dei quali è la punta più alta.

Il nome gli deriva dal Comune situato sulla sua vetta, il più alto fra quelli della provincia di Roma, costituitosi attraverso i secoli molto probabilmente per effetto dei piccoli commerci derivanti dalla vicinanza del Santuario.

Questo monte, per chi transita nella ridente sottostante valle del Giovenzano, piccolissimo affluente dell'Aniene, nella quale si snoda il percorso della via empolitana, si presenta ancora con un aspetto selvaggio ed affascinante insieme con le macchie verde cupo delle sue boscaglie, con i vari tratti impraticabili per gli enormi massi scoscesi e dirupati, taluni precipitati nel corso dei secoli, altri elevanti al cielo le loro creste gigantesche, ricchi di spacchi bui, enormi fenditure, ove, sino agli inizi di questo secolo, nidificavano gli avvoltoi.

Durante la brutta stagione, il più delle volte il Santuario è invisibile avvolto com'è da fitte nebbie oppure ricoperto da una candida coltre di neve.

Dalla sua cima si gode uno degli spettacoli più belli di quella parte della provincia romana: ad oriente la verde ed ubertosa valle dell'Aniene che si snoda da Tivoli a Subiaco; a mezzogiorno emerge l'altura ove è annidato Castel San Pietro, l'antica Arx che sovrasta la preistorica Preneste oggi Palestrina, e ad occidente, nelle giornate limpide, è possibile godersi lo spettacolo meraviglioso del sole che si tuffa nelle rilucenti acque del Tirreno.

Una volta l'accesso al nostro Santuario era possibile solo attraverso i malagevoli sentieri che numerosi si dipartivano dai paesi circonvicini: questi antichi percorsi altro non erano che i discendenti delle antichissime strade che allacciavano sin dai tempi remoti la zona dei monti Tiburtini (il nord-ovest) con quella dei monti Prenestini (il sud-est) e collegavano tra di loro anche i due versanti del nostro Monte, mentre oggi la rete stradale impone al viaggiatore strade diverse a seconda che egli voglia raggiungere i centri abitati dell'uno o dell'altro crinale.

In ogni caso si deve raggiungere Capranica Prenestina, l'unico paese collegato a Guadagnolo tramite una comoda strada asfaltata di circa dieci chilometri. Un chilometro e mezzo prima di esso una breve deviazione conduce proprio nel piazzale antistante la piccola chiesa, e, quella che una volta era una marcia faticosissima di parecchie ore, si trasforma in una comoda e piacevole gita automobilistica.

Origini del nome

Ai nostri giorni, quando si parla del santuario della Mentorella, ci si riferisce precisamente al luogo ove esso sorge attribuendogli un raggio di circa un chilometro, un chilometro e mezzo al massimo, praticamente lo sperone del monte su cui è adagiato il piccolo complesso e tutte le sue pertinenze. Per localizzarlo, poi, con maggior precisione si aggiunge "sul Monte Guadagnolo" oppure più specificamente "vicino al paese di Guadagnolo".

Questo, all'incirca dalla fine del secolo scorso, quando, occupata Roma nel 1870, anche la residua parte del Lazio, che fino all'ultimo aveva fatto parte dello scomparso Stato Pontificio, venne ordinata secondo lo schema dei comuni dipendenti da un capoluogo di provincia in vigore nel Regno di Italia il che portò ad una razionalizzazione e semplificazione delle denominazioni in uso fino ad allora.

Va detto, invece, che sin dai tempi più antichi il nome del nostro monte era Vulturella o anche Bulturella, ma già questi appellativi, per effetto della progressiva corruzione del linguaggio operata attraverso i secoli dalla popolazione, erano a loro volta deformazioni del nome originale che era Vultvilla o anche Vultuilla oppure Bultuilla nel barbaro latino dei primi secoli dell'era Cristiana.

Sull'origine di questi nomi i pareri degli studiosi sono parecchio discordi.

Il gesuita Padre Atanasio Kircher (1602-1680) nella sua pubblicazione del 1655, intitolata "Historia Eustachio-Mariana", lo fa risalire alle parole di Papa Silvestro I (314-335) che, riferendosi alla volontà manifestatagli dalla Madonna durante un'apparizione di avere li un altare per il suo culto, avrebbe proclamato "Fiat ubi vult Illa". Tesi questa ritenuta unanimemente infondata, frutto solo della sua grande devozione Mariana, ma completamente priva di basi storiche: essa difatti è basata sulla convinzione che egli nutriva circa le origini costantiniane dell'edificio, opinione questa rifiutata dalla critica storica poiché basata sulla permanenza di Silvestro nell'eremo sul Soratte, permanenza mai avvenuta come storicamente accertato.

Il canonico Mons. Giuseppe Cascioli (1867-1934) Archivista della Rev.Fabbrica di S. Pietro, ricercatore fra i più attendibili e, soprattutto nativo dei luoghi, nel suo libro "Il Santuario della Mentorella" del 1901, propende invece per la derivazione dal nome del Conte goto Vult, protagonista di un episodio storicamente provato e registrato negli annali di San Gregorio Magno, il quale si costruì un rifugio sul nostro ciglione per condurvi vita eremitica, una "Villa di Vult" da cui sarebbe poi derivata quella denominazione di "mons Vult villae".

Al contrario, il Prof. Attilio Rossi, studioso di Tivoli, nella sua opera "S. Maria in Vulturella" del 1905, ritiene invece per certo che esso derivi dal latino "vultur" avvoltoio, uccello che nidificava copiosamente come si è detto negli anfratti di quel monte, rifiutando decisamente tutte le altre tesi.

Per quanto si riferisce al nome di "Mentorella", i precitati Cascioli e Rossi unanimemente lo dicono derivato dal nome di un antico castello il "castrum morellae" costruito molto prima dell'anno 1250 forse dagli stessi Oddoni signori di Poli ed ancora esistente nel 1423. Si trovavano in una zona impervia in direzione Nord-Ovest rispetto al Santuario, accanto ad una sorgente chiamata di "S. Eustachio" ed i suoi ruderi erano ancora visibili alla fine del 1800.

L'abituale corruzione del linguaggio secondo ambedue gli storici potrebbe aver trasformato gradatamente tutte le definizioni vigenti in antico aventi ciascuna una cadenza fonica comune: Bulturella... Vulturella... Castrum Morellae... cui si deve anteporre "mons" sino a farle diventare "Mentorella", la denominazione con la quale viene indicato a partire dalla fine del secolo XVII alla fine del secolo XIX.

Il territorio ed i suoi proprietari

È storicamente accertato che sin dall'epoca del basso impero romano, tutto il territorio compreso nel quadrante Nord-Est e Sud-Est di Roma apparteneva alla potente "Gens Anicia" la prima delle antiche famiglie patrizie romane ad abbracciare la fede cristiana. Da essa uscirono due grandi figure di Santi: Benedetto (480-543) fondatore del Monachesimo occidentale e Gregorio (540-605). Benedettino anch'esso, poi Papa, passato alla storia con l'appellativo di Magno.

Una prima conferma di ciò sarebbe - secondo gli studiosi - il fatto che l'attività del Primo si svolse esclusivamente nell'ambito di questi possedimenti: Vicovaro, Subiaco, ma soprattutto la grotta accanto alla Chiesa della Mentorella per culminare poi a Montecassino.

Ma è nei documenti relativi al Secondo che si hanno le prime conferme.

Dopo essersi ritirato dalla vita politica Gregorio era entrato nell'Ordine Benedettino ed aveva fondato nella casa paterna al Clivo di Scauro sul Celio a Roma un convento dedicato a S. Andrea al quale aveva fatto donazione con una bolla dell'anno 587 di tutti i territori di sua proprietà situati ad Ovest "del monte Vultuilla" fra i quali si trovavano Castrum Pauli (Poli), Castrum Novum (S. Gregorio da Sassola) e Casa Corbuli (Casape).

Con un'altra bolla dell'anno 594 faceva donazione al Monastero di S.Scolastica in Subiaco di tutti i territori di sua proprietà situati ad Est del detto monte nei quali territori, oltre le rocche di Ciciliano e Pisoniano si trovava anche il "Montem Vultuillam de Sancta Maria".

A questa citazione inconfutabile seguono circa quattro secoli di continui cambiamenti di proprietà vuoi per usurpazioni, o per donazioni o per enfiteusi concesse e poi ritirate, trattenute con la violenza o usurpate. Poi, nell'anno 984, un altro documento probante: il testamento della nobile donna Rosa che, dichiarandosi legittima proprietaria della maggior parte di quel versante Est che era stato donato dal suddetto Papa al monastero di S. Scolastica, ne fa donazione al monastero dei Santi Andrea e Gregorio al clivo di Scauro sul Celio in Roma, che diviene cosi proprietario non solo di tutto il monte, ma anche del paese di Guadagnolo e di tutto il territorio circostante, compresi i paesi che vi si affacciano dalle alture tutte intorno.

I tempi però erano quelli che erano.

Nel 1060 un Oddone del ramo dei Crescenzi Sabini conquista tutti o quasi i territori soggetti al Monastero in questione e si insedia nella rocca di Poli. Autonominandosi "Oddone de Polo" dà inizio alla dinastia degli Oddoni contro i quali i poveri monaci finirono soccombenti malgrado i loro numerosi e pressanti appelli alla giustizia papale.

Ragioni politiche, infatti, indussero il Pontefice Adriano IV, nel 1157, a concedere il dominio di quelle terre al successore di quel primo Oddone dopo che gli ebbe fatto atto di sottomissione e di restituzione del maltolto. Cosi quel casato si ritrovò padrone di ben nove castelli compreso quello di Guadagnolo nel cui territorio si trovava il nostro piccolo Santuario.

Ma la loro fine era solo rimandata. Nel 1208, infatti, gli Oddoni furono estromessi da tutti i loro possedimenti a favore di Riccardo dei Conti di Segni, fratello di Innocenzo HI, per non aver tenuto fede ai patti matrimoniali sottoscritti in occasione delle nozze di Giovanni, nipote del Papa, con Costanza figlia dell'ultimo signore di Poli.

Da quella data inizia il dominio del nuovo ramo della famiglia Conti che prenderà il predicato "Duchi di Poli e di Guadagnolo" e che proseguirà ininterrottamente per sei secoli.

Non solo quindi tutto il monte e l'omonimo castello ma anche il nostro Santuario erano sotto la loro giurisdizione. Nel 1488 venne conferito a Girolamo Conti, Arcivescovo di Massa, con lettera di Innocenzo VIII Cibo e con il titolo di Abate Commendatario, il godimento delle rendite della nostra chiesetta ed a quel godimento furono sempre e solo ammessi con quel titolo, prelati di quella Famiglia.

La morte di Michelangelo Conti, avvenuta nel 1808 senza lasciare eredi diretti, pose fine a questa tradizione: gli ultimi tre furono Cardinali nominati direttamente dal Pontefice; quindi nel 1879 la carica venne soppressa.

Tutti i possedimenti passarono, in forza di successione ereditaria, alla famiglia Sforza-Cesarini; nel 1820 la Mentorella venne venduta al Duca Torlonia. Infine, nel 1857, l'Ordine del Padri Resurrezionisti Polacchi, da poco costituito nella capitale francese per l'assistenza religiosa dei concittadini esiliati all'estero, acquistò il nostro Santuario, riuscendo anche a recuperarne la proprietà dopo la bufera della liquidazione dei beni ecclesiastici della fine del secolo scorso. Il Santuario è tuttora nelle loro mani e fa parte della provincia monastica di Varsavia.

Il culto Mariano ed il culto Eustachiano

Tanto è antico quel piccolo tempio appollaiato oltre i mille metri di altitudine, che fatalmente le sue origini hanno dovuto sconfinare nella leggenda, anzi nelle leggende: quella di S. Eustachio e quella relativa al Conte goto Vult.

E' difficile stabilire se queste leggende sono fiorite da un piccolo spunto realmente accaduto arricchendosi poi mano a mano che diventavano secolari, oppure - al contrario - se coteste fioriture della fantasia popolare abbiano indotto a credere reale un loro spunto iniziale; né tanto meno conviene inoltrarsi nelle accese contese dei vari storici sulla attendibilità o meno dei fatti narrati in esse o nelle più o meno credibili ricostruzioni degli avvenimenti da essi presentate.

Quello che emerge dall'insieme di queste ricerche, tenendo presenti le più accreditate penne che ne hanno trattato, confrontando i riferimenti storici esistenti con gli Atti dei vari Martirologi e relative Passio, è la vicenda personale del romano Placido, maestro dei cavalieri sotto Vespasiano e valoroso combattente della guerra romano-giudaica del 70 d.C.

Andando a caccia nelle selve dell'antico "Vultur" che si trovava nelle sue proprietà terriere, si imbatté un giorno in un magnifico cervo.

Non si stancò di inseguirlo per gli scoscesi fianchi della montagna fino a che quello con un balzo immane si posò su di un ciglione impervio, al di sopra di lui ma a brevissima distanza. Mentre Placido si apprestava a colpirlo senza perderlo di vista, anzi ammirando compiaciuto la magnifica preda che gli era capitata, vide ad un tratto risplendere un nimbo luminoso, fra le corna dell'animale, nel quale rifulgeva la figura di Gesù Crocifisso, mentre una voce dolcissima e profonda lo invitava ad adorarlo. Di qui la sua conversione che egli vorrà ricordare con l'erezione di una piccola cappella sul luogo stesso dell'apparizione.

Ritornato a Roma ricevé il Battesimo con tutta la sua famiglia e cambiò il suo nome di Placido in "Eustachio". Durante le persecuzioni di Traiano nel 107 d.C. venne preso e gettato in pasto alle belve nel circo, insieme alla moglie ed ai due figli. Uscita indenne da questa prova la famigliola fu rinchiusa infine in una fornace.

Il culto di Eustachio fu molto seguito in Roma, specie nella zona dell'antica diaconia a lui dedicata posta presso il Pantheon, dove presumibilmente egli aveva le sue proprietà cittadine. Di essa non rimane però che il campanile in quanto l'attuale chiesa è la ricostruzione della antica. Papa Innocenzo XIII della famiglia Conti- Duchi di Poli e Guadagnolo - e quindi feudataria della zona in cui sorge il Santuario della Mentorella così legato alla tradizione Eustachiana, vi contribuì con una ingente somma.

Persino a Parigi esistono un'importante chiesa ed una vastissima Parrocchia sotto la Sua protezione.

Nell'antica Basilica Costantiniana di S. Pietro in Vaticano esisteva un altare a lui dedicato di cui si trova conferma nel Codice Barberiniano (XXXIII 144) "altare S. Eustachii dotatum a Bartolomaeo Vaysano Can.Anno 1270".

Per il culto mariano occorre riferirsi alla leggenda del Conte Vult che prende corpo qualche secolo dopo. Quando cioè Baduilla detto Totila (l'Immortale) prima Duca del Friuli, poi Re degli Ostrogoti dal 541 al 552, sceso al Sud dell'Italia e conquistata Roma, ebbe modo di passare sotto Montecassino ove, sentito della fama di santità e dei prodigi che accompagnavano S. Benedetto, volle metterlo alla prova. Fece vestire dei suoi abiti e delle insegne reali il suo scudiero Riggo (o Riggone) e con ricca scorta di nobili e soldati, lo mandò dal Santo Monaco. Ma questi, non appena scorse il piccolo drappello da lontano, gridò: "Oh! figlio, lascia quelle vestimenta che non sono tue!" sventando cosi il tranello tesogli dal Re. Questi, colpito intimamente dal prodigio, gli si prostrò innanzi in segno di sottomissione e rinunciò a conquistare e saccheggiare l'Abbazia come aveva in animo suo deciso.

Tra i nobili che avevano scortato Riggone, si trovava quel Conte goto Vult che, secondo gli antichi codici dei dialoghi di S. Gregorio che riportano il fatto, impressionato dal comportamento del Santo Abate e dal notevole prodigio compiuto in sua presenza, si convertì alla fede cristiana e volle dedicarsi ad una vita di preghiera e di penitenza. Costruitasi sul ciglione del nostro monte una sua dimora - o villa - forse attirato da ciò che rimaneva della cappellina fatta costruire da Placido oppure dal racconto delle gesta del martire cristiano che sicuramente ancora si riportavano fra le genti del luogo, vi si ritirò da eremita.

Da "Villa di Vult", come si è detto avanti, discenderebbe quel "Vultuilla" che si troverà nei documenti a partire dalla famosa bolla del 594; ma soprattutto da quell'eremo, ove sicuramente si trovava una cappelletta o un qualsiasi ambiente destinato alla preghiera, secondo il già nominato Cascioli, deriva quel "...de Sancta Maria" che gli ha fatto pensare che sin da quell'epoca abbia avuto inizio il culto, in quel luogo, della Madre di Dio.

Il complesso del Santuario

La prima opera in muratura sorta in questo punto della montagna si ritiene possa essere la cappelletta che Placido eresse a ricordo della miracolosa apparizione che lo condusse alla conversione. Essa sorge sullo scoglio più alto del promontorio che si eleva alle spalle della chiesa. Anche se nessuno può attribuirne con assoluta certezza la paternità al nostro personaggio, gli esperti l'hanno datata al I secolo dopo Cristo. È adorna di pitture molto primitive, pesantemente restaurate, rappresentanti la scena leggendaria.

Per quanto riguarda la cappelletta del conte Vult ed il suo eremo, nessuno ha mai potuto riconoscerne la benché minima traccia anche se due piccole e tozze colonne riutilizzare nella chiesa potrebbero sollevare qualche perplessità.

Occorre, comunque, tenere bene presente che, escludendo le due piccole unità sopra ricordate, e partendo dalla data ufficiale del 594, sono ben 1397 gli anni di esistenza della Mentorella, anche se questa cifra naturalmente non vale per il suo aspetto quale si presenta ai nostri giorni. A parte i secolari periodi di abbandono, le distruzioni ed i saccheggi il complesso attuale è il risultato di tre radicali rifacimenti che hanno avuto luogo rispettivamente nei secoli IX, XII e XX. Tra gli ultimi due va inserito il restauro effettuato dal Kircher nel XVII che però non alterò in nulla le strutture come invece avvenne per gli altri, ma si limitò a riportare il Santuario in condizioni da poter essere officiato anche per l'avvenire.

Del primo rifacimento si sa ben poco: sono considerate superstiti e forse addirittura anteriori quelle due colonne di cui si diceva, diverse tra loro e sistemate su due alti basamenti a sostenere un arco certamente posteriore e notevolmente ribassato che si trova in fondo alla navata sinistra e quel piccolo spazio a destra della porta d'entrata, chiamato cappella di S. Silvestro; esso conserva la pavimentazione antica è cioè leggermente rialzata rispetto alla attuale e limitata da due basse colonne a blocchi di tufo come i capitelli che sorreggono due piccoli archi a tutto sesto asimmetrici rispetto agli altri, più alti ed a sesto acuto, che corrono lungo le pareti divisorie delle navate.

Qui, sopra una mensa d'altare sorretta da quattro snelle colonnine, dall'aspetto piuttosto recente, campeggia la copia del bassorilievo ligneo (l'originale è al restauro) che anticamente costituiva il paliotto dell'altare stesso. La tavola è in due parti: la inferiore presenta solo consunte tracce di una raffinata decorazione tipica degli ultimi secoli del primo millennio, la superiore rappresenta la consacrazione della prima chiesa: raffigura Papa Silvestro I assistito da un diacono e da due accoliti che benedice un altare sulla cui fronte è inciso: Men.Oc.D.XXIII Dedicatio Beatae Mariae in Vultvilla, sulla destra il cervo nimbato della leggenda eustachiana assiste alla cerimonia. Vicino a lui la firma dell'autore: Magister Guglielmus oc opus fecit.

Sulla età e sullo stile di quest'opera non si è trovato accordo fra gli studiosi. Chi propende per l'VIII-IX secolo, chi per il XII; il Kircher, naturalmente, vi vide confermata la sua tesi sulle origini costantiniane dell'edificio; ma tutto ciò non ha importanza; conta solo poter ammirare queste cose che parlano il linguaggio del millennio trascorso.

La seconda ristrutturazione avvenuta nel XII secolo ricostruì completamente la chiesa, conservando quel poco che si è detto e lasciandoci un nuovo edificio di chiara impronta gotica, molto più ampio del precedente, di forma basilicale, a tre navate divise come si è detto da grandi archi a sesto decisamente acuto, ricoperta da un tetto a capriate nude. La facciata è ornata da due graziose finestre ogivali e da un bel rosone traforato, protetto da un piccolo protiro, anch'esso a sesto acuto, sorretto da quattro snelle colonnine poggiate sopra mensole.

Anche il Nibby nel secondo tomo del suo "Analisi della carta dei dintorni di Roma" così lo giudica: "per la sua architettura gotica è uno dei monumenti più importanti che ci rimangano".

Fu in questa occasione che venne posta al centro del presbiterio la statua lignea della Vergine, con in braccio il divino Infante, dalla veste ed il manto riccamente bordati; con la destra essa regge una fascia o stola; attualmente si mostra sedente su di una cattedra di recente fattura ma una volta era custodita in una copertura a due sportelli che si apriva a guisa di trittico.

La statua è attribuita sia dal Rossi che dal Cascioli alla scuola italiana dell'XI o XII secolo ed è collocata sotto un elegante ciborio che presenta numerose affinità con molti altri presenti nelle chiese di Roma, in particolare con quello di S. Lorenzo fuori le mura. Il Cascioli lo data al 1305 basandosi su di una iscrizione oggi scomparsa, mentre il Rossi lo anticipa alla prima metà del XIII secolo.

Infine le pareti vennero decorate da numerosi affreschi raffiguranti episodi della storia del Santuario e allegorie di Santi. Non si sa in quale periodo tutte le pitture vennero coperte, forse perché in cattive condizioni, da uno spesso strato di calce. Alla fine dell'ottocento il Cascioli - il quale, oltre che illustratore, fu un attivo benefattore della Mentorella - cercò di riportarle alla luce ma purtroppo, avendo la calce bruciato le tinte, non fu possibile recuperarle tutte.

Se il restauro del IX secolo era stato indubbio appannaggio dei benedettini sublacensi ai quali S. Maria era pervenuta tramite la bolla di Gregorio I, quello del XII era tutto merito dei benedettini romani del Clivio di Scauro ai quali il Santuario era stato donato dalla nobile donna Rosa nel 984, ma, alla fine del XIV secolo da quei luoghi era sparita ogni traccia di saio benedettino dell'uno o dell'altro ramo.

Divenuta commenda con titolo di Priorato, affidata a Titolari cui interessavano solo i profitti che ne potevano ricavare, officiata solo saltuariamente, occupata di tanto in tanto da qualche eremita che vi cercava soltanto rifugio e silenzio, la bella chiesina iniziò a decadere né le cose migliorarono di molto quando, a partire dal 1488, furono chiamati a quella carica solo prelati appartenenti alla famiglia Conti del ramo dei Duchi di Poli e Guadagnolo.

Travolto da tanta incuria, il complesso decadde nell'abbandono sempre più assoluto. Gli antichi pellegrini ne dimenticarono l'esistenza e fu l'oblio più completo.

Nel 1661, durante un viaggio di studio nella zona dei monti Prenestini, il dotto gesuita padre Atansio Kircher si imbatté in quello che era rimasto della "Beatae Mariae in Vultuilla".

Il tetto sfondato, le pareti ammuffite, il pavimento una fossa d'acqua dal rivestimento tutto sconnesso, le mura dei piccoli edifici adiacenti pericolanti, il piccolo portale divelto, la statua della Vergine corrosa dal tempo, ricoperta da un fitto strato di polvere e avvolta di ragnatele! Da questo incontro, data la grande devozione che quello straordinario uomo di cultura nutriva per la Madre di Dio, nacque un periodo d'oro per il piccolo complesso. D'accordo con il nuovo commendatario don Giovanni Nicola Conti, egli si rivolse ai più grandi personaggi da lui conosciuti (italiani, tedeschi, ungheresi, austriaci) ed in breve piovvero tali aiuti da permettergli di attuare un razionale ed approfondito restauro sia della chiesa che del convento.

Iniziò dalla cappella di S. Eustachio che venne quasi completamente ricostruita e affrescata e, poiché per accedervi occorreva superare un'erta faticosissima scavata nella roccia, egli pensò di farvi costruire una scala da lui chiamata Santa che, per quanto assai ripida, rimane sempre più agevole del primitivo camminamento.

Eresse un piccolo altare nella grotta sottostante per onorare degnamente la presenza quasi biennale di S. Benedetto in quel luogo.

Provvide di un nuovo tetto la chiesa, risanando tutte le cicatrici dei muri e del pavimento, fece restaurare le pitture e pensò anche alla ristrutturazione degli edifici annessi che voleva perfettamente utilizzabili poiché egli intese provvedere anche alla vita futura del Santuario ed alle necessità del clero che lo avrebbe officiato.

Istituì, infatti, un'annua missione che egli volle fissare per il 29 settembre di ogni anno e dedicata all'Arcangelo Michele mediante un censo attivo di mille e quattrocento scudi che permettevano di sopportarne le spese in perpetuo.

Fu certamente in occasione di una delle sue numerose visite alla Mentorella che venne in possesso di un prezioso sigillo oggi nella collezione sfragistica della Biblioteca Vaticana ma proveniente dal Museo Kircheriano del Collegio Romano. Esso rappresenta una figura di donna nimbata a mezzo busto uscente da un oggetto a forma di puteale ma con un'apertura nella parte inferiore che lo porta a raffigurare una fornace. La scrittura intorno recita: SCE MARIE BULTUILLA cosa che conferma aver conservato sia il monte che la chiesa l'antico nome (perlomeno sino al XIV-XV secolo) mentre la figura conferma la continuità dei due culti: quello Mariano e quello Eustachiano.

Riconosciuto da tutti come il "ricostruttore della Mentorella" il Padre Atanasio alla sua morte volle che il proprio cuore riposasse ai piedi della Vergine che egli aveva cosi amorosamente onorato.

Alla morte del Gesuita, però, quel "momento aureo" non durò più a lungo. Quello che più concorreva alla rovina della situazione era il fatto che non vi era dimora stabile di religiosi fra le sue mura non essendo assolutamente sufficiente la permanenza di pochi sacerdoti una sola volta all'anno e per lo spazio brevissimo di una missione.

Si susseguirono ancora due secoli di alterne fortune, di abbandono e di rovina sempre più evidenti; anche la dotazione per l'officiatura annuale perdeva di tempo in tempo sempre più di valore e nell'ultimo periodo era ridotta ad un solo giorno di celebrazione.

Fino a che nell'aprile del 1857, per intercessione del Commendatario pro-tempore Cardinale Roberto Roberti, Pio IX lo concesse alla Congregazione dei Padri Resurrezionisti Polacchi prima in via provvisoria per sette anni, poi confermando l'affido perpetuo nel 1864.

Da quel momento per il Santuario di S. Maria delle Grazie alla Mentorella inizia veramente, per la terza volta ma in modo definitivo, una nuova vita.

Iniziarono i Padri ad isolare i fabbricati esistenti costruiti a ridosso delle rocce per far cessare l'umidità perenne che tale situazione provocava; si rifecero completamente sia la cappella di S. Eustachio che la scala del Kircher divenuta quasi inagibile, si restaurò il fabbricato del convento al quale si aggiunse un'ala per le aumentate necessità sia della comunità che dei pellegrini che ricominciarono ad affluire numerosissimi, furono creati orto e giardino sul prospetto posteriore.

Nella chiesa, al centro del presbiterio, fu posto un altare sul quale vennero innalzati sia la statua lignea che il ciborio, prima sistemati direttamente sul pavimento, si provvide all'elevazione di una cupola ed alla dotazione di un organo (quest'ultimo proveniente dalla chiesa di S. Susanna in Roma), fu costruito il nuovo altare in fondo alla navata di destra dedicandolo a S. Giuseppe.

Il piazzale antistante venne livellato ed ampliato per meglio attrezzarlo a ricevere i numerosi mezzi che sempre più abbondanti continuano ad affluire.

Infine, con un poderoso lavoro di riporto della terra venne ricavato un piccolo cimitero alle spalle della cappella di S. Eustachio, sul punto più alto dello scoglio roccioso. Li riposano in una pace sovrannaturale taluni sacerdoti già residenti nel Santuario, avvolti nella terra ma innalzati verso il cielo, ricoperti per la maggior parte dell'anno da un candido lenzuolo di neve, illuminati dalle stelle nelle tiepide notti d'estate, cullati dal vento e dai rintocchi della superstite campana: "Quum de vultuilla virgo est de redimita corona obtulit haec coetus patrum sua mystica dona".

Vittorina Novara